Gabriella Romano: Il mio nome è Lucy / Donzelli 2009. Recensione: 3 di 3
Gabriella Romano
Il mio nome è Lucy.
L’Italia del xx secolo nei ricordi di una transessuale
Donzelli – Interventi, Roma 2009
95 p.: 8 tavole fuori testo: ill. fotog. in b/n ; 16 €
(Terza parte di un post molto lungo. La prima parte la trovate qui, la seconda qui.)
Una voce indomita
Il mio nome è Lucy è il frutto di lunghe conversazioni che Gabriella Romano ha avuto con Lucy, transessuale da uomo a donna, nata nel 1924, a Fossano, in provincia di Cuneo, da famiglia emiliana. Coadiuvata da Romano, Lucy racconta la sua storia in prima persona. Una vita lunghissima che si snoda attraverso traversie e dolori e poche allegrie.
La straordinarietà del testo, oltre agli avvenimenti che evoca e racconta, oltre alla eccezionalità di Lucy come testimone di una cultura oppressiva e spaventosa nella sua arretratezza, sta nello sguardo indomito e irriducibile che Lucy pone su di sé e su ciò che le accade. E’ la sua voce, che Romano filtra, che risuona di pagina in pagina con un timbro che resta a lungo nella memoria, ad essere il vero regalo di questo testo.
Dentro e intorno al testo
Il mio nome è Lucy non è un’autobiografia, o un romanzo, è un’opera di storia orale, che ci mette a disposizione una testimonianza che Romano ha cercato, raccolto, reso testo.
Nei due post precedenti ho cercato di dar conto di cosa sia il testo e di cosa racconti, attraverso una fitta messe di citazioni, nel tentativo di rispettare il più possibile Lucy, la sua voce, e il testo suo e di Romano. Un racconto di per sé già breve, distillato di una vita densa di avvenimenti, che, in altre parole, non ho saputo riassumere.
Ma qui più che in altre occasioni mi è sembrato forte e significativo tutto l’intorno che fa il libro, la copertina, il titolo, la quarta, la prefazione e la postfazione.
Il suo nome è Lucy?
Quali che siano le regole che definiscono, nella pratica della storia orale, la responsabilità autoriale dei testi che riportano le testimonianze (che sono fatte di parole altrui, ma che, senza l’intervento di chi quelle parole ha raccolto, non si sarebbero mai fatte testo) il cortocircuito che si crea, fra l’attribuzione a Gabriella Romano, autrice, e il titolo, non virgolettato, Il mio nome è Lucy, se da una parte ci racconta di una adesione, di un’identificazione sentimentale, fra Romano e Lucy (Gabriella Romano: Il mio nome è Lucy), dall’altra, pur giustamente indicando chi ha permesso ad una voce di essere ascoltata, scritta, condivisa, sembra segnare insieme una spossessione, una riduzione, un’amara rimessa a lato di chi quei ricordi ha vissuto.
L’Italia del XX secolo
Anche il sottotitolo (L’Italia del XX secolo nei ricordi di una transessuale) sembra partecipare a questa sottile riduzione a lato, e forse lo si sarebbe dovuto ribaltare (I ricordi di una transessuale nell’Italia del XX secolo), essendo i ricordi di Lucy il centro del testo -il loro riemergere e riordinarsi, coadiuvati dal lavoro di Romano- e non invece l’Italia: che da questi si possa trarre un ritratto dell’Italia del XX secolo sta nell’occhio di chi legge (che ricolloca, posiziona, attiva una rete di riferimenti cronologici e fattuali che nel testo non compaiono, e significativamente) e non nello sguardo di chi racconta.
Così il sottotitolo sembra messo a posteriori, evidenziando, come con una freccia, il senso che editorialmente si ritiene interessante: quello che porta all’acquisto e che promette all’acquirente che non sarà deluso. Anche la disposizione grafica (L’Italia del XX secolo / nei ricordi di una transessuale) è gerarchica, schiacciante, (L’Italia > la transessuale; la storia > la testimonianza; il noto > l’ignoto) e racconta il mercato che l’editore si immagina.
(E’ inoltre forse fastidioso, soprattutto alla luce della lettura del testo, quel “di una transessuale”, con la consueta italiana riduzione di un soggetto alla categoria che, sia pure, vi appartiene, quasi ridicolo di fronte all’irriducibile originalità dello sguardo, e della vita, di Lucy).
(Questo ritratto “da lato” dell’Italia, orientato dal sottotitolo, è poi costretto in forma di parabola fra la Premessa e la Postfazione, entrambe di Romano, che qui, in luogo di sipario, e discretamente separata dal testo, molto insiste su un percorso salvifico, da uno stato di fuga a uno di affermazione e riscatto, simbolicamente conclusosi con la partecipazione al Pride di Bologna del 2008, cui parteciparono entrambe).
(E’ molto interessante però la chiave della fuga che Romano propone per leggere la storia di Lucy, la fuga come affermazione di sé, come spazio franco di opposizione).
Lucy come Anita Berber: una riduzione al noto
La copertina anch’essa orienta l’approccio al testo in maniera forte. Una bella copertina, molto ben costruita: a tutta pagina si riproduce un particolare del Ritratto della ballerina Anita Berber, di Otto Dix, dipinto nel 1925; Anita Berber, diva fiammeggiante della Repubblica di Weimar, che Otto Dix descrisse nei suoi tratti più grotteschi e decadenti, morì nel ’28, quando Lucy, allora Luciano, aveva 4 anni. Il rosso cupo del vestito e dello sfondo rendono la copertina forte e visibile; risaltano il volto bianco molto truccato, dai consueti tratti crudeli di tutta l’opera di Dix, e, più sotto, incastonato fra la gola nascosta da un collo alto, e il seno, che solo traspare in basso, il rettangolo bianco che riporta i dati del testo. L’identificazione è immediata, e guida lungo la lettura.
Non c’è dubbio che le copertine debbano essere evocative, più che illustrative, ma è altrettanto vero che il loro potere di orientamento della lettura è molto forte. Lo spostamento che qui si mette in atto è dall’ignoto al noto, in parallelo al sottotitolo: si copre con un’immagine nota (che non soltanto descrive un mondo ma lo interpreta e per metonimia lo riassume) un’esperienza della vita e di sé che è invece sorprendente. Per molte pagine, pur contro l’evidenza delle date e dei luoghi, la forza della visione, e del giudizio, di Otto Dix, riverbera sul testo, schiacciandolo e annichilendone l’originalità.
Per fortuna all’interno del libro si riproducono otto ritratti fotografici in bianco e nero, di Luciano, Carmen, Lucy, tre incarnazioni successive e compresenti, dal 1946 a oggi, riscattando tutta la complessità e l’adesione al suo tempo, della vita che nel testo viene raccontata.
Perché non usare una di queste fotografie per la copertina? La quarta, per esempio, è un ritratto degli anni ’60, in Sicilia, cappello da cow boy bianco, croce sul petto nudo, giubbotto di jeans bianco, capelli corti: molto più vicino all’iconografia di un Marlboro-man, perturbante e indecifrabile come immagine di una transessuale, che a quella rassicurante, nelle sue stigmate del vizio, del ritratto che inalbera la copertina. Ma forse si è ritenuto che mal si accordasse con la carta preziosa che Donzelli usa per la collana, con l’eleganza leggermente retrò dei caratteri di stampa, e soprattutto sarebbe parsa anacronistica, rispetto ad un’idea, creduta romantica, che guarda con fascinazione a ciò che indica come vizioso e che in tale categoria mantiene.
Una quarta violenta
La quarta di copertina è coerente col programma grafico e iconografico. Ecco l’incipit: “Il secolo breve con occhi diversi […]”: è un complemento del sottotitolo, che conferma le intenzioni editoriali. Il punto non è Lucy, il punto non è la sua vita e il modo in cui lei e Romano ce la raccontano, il punto è che attraverso questo racconto potremo avere una visione “differente” sul secolo passato. Con una pratica di lunga tradizione si fa sparire il soggetto. Viceversa Romano, anche se da scrittrice, molto si pone il problema della forma che il racconto viene ad avere, modellandolo sulla parabola, ma in un’adesione anche commovente al soggetto: Lucy, Luciano, Carmen, non è mai dimenticata.
La quarta prosegue: “con occhi diversi, quelli di Luciano, […] dapprima bambino inquieto della provincia piemontese, poi adolescente “diverso” nella Bologna fascista […]”.
La parola “diverso” è la chiave, ossessiva, che editorialmente rafforza l’intento di rassicurazione del mercato: segna, definisce, confina.
Ma sconcertante, e un po’ spaventoso, è quel “bambino inquieto”. Da dove viene questa definizione? Da Lucy? Da Romano? O dai genitori che diedero due ceffoni a Luciano quando provò a dire che era stato abusato, ripetutamente, nella stessa casa dove abitava, dal parroco, dal sarto, dal pittore?
C’è una linea precisa e irriducibile fra quegli schiaffi, dati negli anni ’30, e questa riduzione di un’infanzia fatta di abusi e di negazione alla definizione di “bambino inquieto”, scritta ora: c’è l’appartenenza alla medesima, immarcescibile, cultura.
Chiude la quarta un’ultima rassicurazione: la testimonianza che si sta per leggere “cattura il lettore […] senza nulla concedere alla morbosità […]”. Ridicola ed offensiva precisazione, che molto dice e racconta su chi questa quarta ha scritto.
Qui una vecchia intervista (credo 2006, ma non sono sicurissimo) a Romano, su Donne e Storia.
Qui un interessante articolo di Alessandro Portelli per il manifesto.
Riassunto bibliografico:
queer / letteratura italiana / prime edizioni
Il mio nome è Lucy. L’Italia del XX secolo nei ricordi di una transessuale
1. ed. – Roma : Donzelli. – 95 p. ; 20 x 14 cm. – (interventi)
©2009 Donzelli
(Qui (prima) e qui (seconda) trovate le parti precedenti di questo post)
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Gabriella Romano: Il mio nome è Lucy / Donzelli 2009. Recensione: 1 di 3
Gabriella Romano
Il mio nome è Lucy.
L’Italia del xx secolo nei ricordi di una transessuale
Donzelli – Interventi, Roma 2009
95 p.: 8 tavole fuori testo: ill. fotog. in b/n ; 16 €
(Posto qui la prima parte di un articolo che è diventato eccezionalmente lungo. Via via che lo scrivevo e riscrivevo per farlo stare in una lunghezza accettabile non ero mai contento. Il fatto è che la vita di Lucy, ascoltata e riordinata da Gabriella Romano ne Il mio nome è Lucy, è così straordinaria, ed avvincente, che resiste ad ogni tentativo di riassunto, perciò ho tentato di parlarne usando le sue frasi, e l’ho divisa in due post, per poter lasciare più spazio alla sua voce.
Molto interessanti sono anche gli apparati che stringono il testo: la copertina, la quarta, e gli interventi di Romano. Di questo si occuperà la terza parte).
Gabriella Romano
Gabriella Romano (Torino, 1960) è documentarista e scrittrice; è autrice di Pazza d’azzurro (GB, 1996) sulla relazione fra Nietta Aprà e Linda Mazzuccato, di L’altro ieri (GB, 2002), che raccoglie cinque testimonianze di donne sulle relazioni lesbiche durante il fascismo e di Ricordare, documentario sulla condizione, sempre durante il fascismo, degli uomini omosessuali inviati al confino; un suo racconto, Acqua, è comparso in Principesse azzurre – 3 (Mondadori, 2005), ed è autrice de I sapori della seduzione. Il ricettario dell’amore tra donne nell’Italia degli anni ’50 (Ombre Corte 2006).
Luciano / Lucy
“Mi hanno chiamata Luciano, sono nata a Fossano, in provincia di Cuneo, nel 1924. […]”, questo l‘incipit della storia della sua vita che Lucy ci racconta, tramite Romano.
Creduta maschio per via del sesso, Lucy non si è mai sentita tale, e dopo una lunga vita è ora una signora anziana, tornata a vivere nel quartiere che la vide ragazzo, a Bologna, “[…] la città della mia giovinezza […]”.
Quando nacque, la famiglia, emiliana, stava a Fossano per via del mestiere del padre, guardia carceraria: una brevissima infanzia, molto povera, sulle sponde della Stura, i pochi cinema, Shirley Temple, Ben Hur, ogni tanto una gita a Cuneo, il fascismo, “[…] le canzoni dei Balilla che parlavano di maschia gioventù. Ma in bocca a me sembravano una bestemmia perché io sin da piccolissimo mi sentivo e sembravo tutt’altro che maschio, [Le canzoni] mi sembravano un bel pezzo di ipocrisia, […] Il ricordo dell’infanzia è infatti […] il ricordo di un sacco di gente che approfittava di me […]” (p. 17).
“[…] Tutti mi chiedevano ossessivamente: sei un maschio o una femmina? […] La guerra, la lotta, le macchine non mi interessavano affatto […] i maschietti approfittavano di questo, […] c’era anche la coscienza che io fossi diverso da loro, c’era curiosità, era sottinteso che io dovessi sottostare alle loro avances […]” (p. 18). I ruoli, i compiti, gli spazi, sono subito definiti.
Abusi condivisi
Il pittore del piano di sotto, il sarto, il parroco, “[…] avevo sì e no otto, dieci anni al massimo e cominciavo a vergognarmi […]”, una serie di abusi che mentre agiscono sul corpo disegnano la percezione di sé, nella vergogna, e nell’isolamento, “[…] io non avrei spifferato mai niente perché la mia omosessualità era evidente e mi rendeva facilmente ricattabile […] Un giorno […] raccontai tutto ai miei genitori, sentivo che c’era qualcosa di schifoso in questa storia, ma mi dissero che non era vero, anzi mi mollarono anche due bei ceffoni. […]. “[Il pittore] cominciò ad offrirmi dei soldi. […]” (p. 19).
Nel 1938 il padre è trasferito a Bologna, per delle lettere di prigionieri politici che aveva illegalmente consegnato, e così si trasferisce tutta la famiglia. “[…] mio padre mi picchiava, mi insultava, mi trattava in modo diverso dai miei fratelli […] non mi ha mai capito, mai accettato […]” (pp. 19, 20).
A Bologna, Carmen
Ma Bologna è la grande città, e a quattordici anni Luciano comincia a fare il cameriere, e i confini un poco si allargano. A Bologna ci sono ritrovi, locali, parchi. “Presi a frequentarli assiduamente, […] Lì ho cominciato a capire cosa volesse dire la parola omosessuale, cioè pederasta o invertito, come si diceva allora […]”. Luciano esce di casa, si mostra, scopre una città viva, ricca di rapporti sino ad allora impensati, si prostituisce, ma anche, insieme, si inserisce in un giro vasto di conoscenze, di amicizie, di serate “[…] Ogni sera nasceva una nuova stella […] io mi facevo chiamare, o meglio, ero stata battezzata, Carmen. […] Una sera feci una bella cifra, quando vidi gli amici, dissi: -Alè, andiamo a mangiare, stasera facciamo festa […] Allora, tutti felici, facemmo bisboccia fino a tardi […]” (p. 23).
Ma c’era il fascismo “[…] gente in camicia nera non ne abbiamo mai abbordata perché capivamo che era pericoloso. [Gli omosessuali] Li cospargevano di catrame col pennello e li rapavano a zero […] Poi rastrellavano anche, cioè la Polizia prendeva qualcuno dei più visibili e lo portava via, senza spiegazioni né niente, […] ma per fortuna c’era anche l’incoscienza della giovinezza, ci picchiavano, ci facevano gli occhi neri, e noi, dieci minuti dopo, eravamo di nuovo lì […] non ce ne andavamo, non ci arrendevamo […] (pp. 24, 25).
Nel 1939 il padre, sempre per via di quelle lettere spedite per conto di prigionieri politici, viene mandato al confino, “[…] con mio padre lontano e assente, almeno io mi sentivo più libero e ne approfittavo al massimo. Sono stati anni belli, intensi e meno male che li ho vissuti appieno, senza negarmi niente, perché il ricordo della spensieratezza di quel periodo è stato un’ancora di salvezza […] Bisogna capitalizzare gli attimi belli che ti regala la vita perché sono quelli che ti impediscono di affogare nella disperazione […]” (pp. 26, 27).
Chiamata alle armi
Nel 1943 Luciano è chiamato alle armi, a diciannove anni. Un mese dopo la chiamata è l’8 settembre; raggiunge i suoi, sfollati a Mirandola. Richiamato dall’esercito fugge, e ripara a Bologna “[…] andavo coi tedeschi che mi pagavano […]”. La Polizia lo sorprende in un hotel con un ufficiale, è disertore; prigioniero fugge di nuovo, e di nuovo viene preso, incarcerato a Modena, poi Verona, dove è condannato a morte e poi destinato a Bernau, “[…] un campo di lavoro nella Germania meridionale. […]”; durante un trasferimento riesce di nuovo a fuggire verso l’Italia, è il Novembre del 1944; al confine viene scoperto, e condotto a Dachau. (pp. 29, 30).
Le parole disseccate
“[…] Ci sono rimasto in tutto solo pochi mesi, dal novembre 1944 al maggio 1945. […]” (p. 41); le brevi pagine dedicate alla permanenza nel campo di Dachau sono fra le più straordinarie del libro: precise, quasi didascaliche nel descriverne l’orrore, lo spavento, lo strazio, come se solo la sottrazione delle parole possa rispettare il dolore infinito che vi abitò; non soltanto, sembra, per una reticenza al ricordo come portatore di un dolore rinnovato, ma anche come l’indulgere possa essere una mancanza di rispetto, in una paura quasi religiosa di toccare ciò che è intangibile.
“[…] cercavamo solo la libertà e il mangiare. Solo la libertà e il mangiare, la fuga e il mangiare e la libertà, solo quello. E nella disperazione la morte. Molti infatti si uccidevano, si buttavano sui fili dell’alta tensione che recintavano il campo. […] Io non ho mai pensato di farlo, sono un vigliacco, non ne avevo il coraggio, altrimenti lo avrei fatto, perché la disperazione c’era. Ma c’era sempre anche qualcosa che mi teneva lontana dall’uccidermi, un istinto, una spinta alla vita. […] Pregavo solamente che bombardassero il campo per farla finita […]” (pp. 37, 38).
“[…] Il campo era diviso in tre, una parte era per le donne, una per gli uomini e una per gli omosessuali. I triangoli rosa erano tanti […] cercavano di comunicare perché erano i più isolati di tutti ed erano trattati peggio di tutti, gli facevano delle angherie peggio che a noi […] erano uomini e donne assieme, ma non li distinguevi […] a noi lasciavano una striscia di capelli […] loro erano completamente pelati, tutti, uomini e donne. […] Gli omosessuali facevano tutti i lavori peggiori: seppellivano i cadaveri, lavoravano ai forni crematori. Poi morivano, morivano da soli, non c’era bisogno di metterli nelle camere a gas, morivano per esaurimento delle forze […]”. (pp. 39, 40).
“[…]non voglio ricordare tutto. Queste cose mi sono andate via dalla testa, non desidero tornare col pensiero a quei momenti perché è stata una cosa troppo, troppo triste, terribile, schifosa… neppure gli animali si trattano come hanno trattato noi. […] non voglio ricordare, farlo apposta, sforzarmi […] mi renderebbe la vita impossibile. L’unico modo per continuare a vivere è guardare avanti, sempre avanti. […]” (p. 36).
(continua)
Riassunto bibliografico:
queer / letteratura italiana / prime edizioni
Il mio nome è Lucy. L’Italia del XX secolo nei ricordi di una transessuale
1. ed. – Roma : Donzelli. – 95 p. ; 20 x 14 cm. – (interventi)
©2009 Donzelli
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