LA GRAFICA E IL FUTURO DELLE LIBRERIE, di Riccardo Falcinelli
La grafica e il futuro delle librerie
(FN è molto contento di ospitare un intervento di Riccardo Falcinelli. Ancor più è contento di ospitare questo intervento. Parliamo da tanto di crisi delle librerie -molto criticando, poco proponendo-. Falcinelli, da grafico, propone un modello possibile, che non si limita a agire sulla struttura -librerie più grandi, librerie più piccole, librerie indipendenti, di catena, con le Focaccerie, monotematiche, punti d’incontro, cattedrali alla memoria-, ma parte dallo stato di fatto -per un verso o per l’altro, per una ragione o per l’altra, nessuna libreria può più pensare di accontentare il proprio pubblico davvero. Troppo vincolanti le strutture della distribuzione per sperare di poterlo fare, troppe le alternative forse insoddisfacenti ma di facilissimo accesso.
Questa che espone Falcinelli qui sotto è un’ipotesi che a me convince interamente, e d’ora in poi la farò mia senza deflettere)
(le immagini piccole sono fotografie di particolari di Fare i libri, di Riccardo Falcinelli, minimum fax 2011)
La grafica e il futuro delle librerie
Da qualche tempo, quando qualcuno viene a sapere che mi occupo di copertine di libri, non può fare a meno di dirmi: beh tra un po’ non avrai più un lavoro! Nella sua testa è ovvio che i libri elettronici sostituiranno quelli di carta e che i libri del futuro (anche quei pochi di carta) non avranno bisogno di copertine, ritenute uno strumento di marketing necessario solo alle librerie tradizionali (che ovviamente non esisteranno più).
Nel pensiero comune è diffusa un’idea debole della grafica che la assimila alla pubblicità e al suo proverbiale ruolo di persuasore occulto. C’è poi anche l’idea, un po’ iconoclasta, che il digitale libererà il pensiero, le idee (lo spirito?) dalla materia che le tiene prigioniere. Perché come dice un vecchio adagio: non si giudica un libro dalla copertina.
Proverò a sfatare questi luoghi comuni (un po’ moraleggianti), proponendo anche un possibile futuro per i lettori e le librerie.
Immaginate di entrare in una libreria – una di quelle grandi, tipo supermercato – e di trovare tutti libri graficamente uguali: tutti bianchi con autore e titolo in nero, tutti della stessa font. Si tratta di un’immagine onirica e improbabile tanto da somigliare a un’installazione di arte contemporanea.
È chiaro che le copertine oltre a sedurre svolgono un ruolo cruciale per il lettore, sono una bussola che con pochi segni ci dice dove siamo: una copertina bianca con un quadrato colorato dice al lettore che siamo dalle parti della saggistica Einaudi; una foto dai toni freddi con lettering robusto si riconosce come thriller.
Non è solo questione di persuadere ma pure (e soprattutto) di orientare.
Proviamo a fare un esperimento simile con una libreria online: cerchiamo la parola “adelphi” su amazon.it. Visualizziamo il risultato della ricerca e vediamo poi cosa accade se priviamo quella pagina delle sue copertine: non solo scompare l’adelphità, ma ci troviamo respinti da un muro di righe di testo in cui è difficile scegliere un libro, a meno che, come quando ci si muove tra bibliografie accademiche, non sappiamo già bene dove vogliamo arrivare.
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Se credete che questo valga solo per i lettori forti o colti vi presento lo stesso gioco con alcuni titoli di best-seller popolari come quelli di Newton Compton: anche qui se tolgo le copertine scompare il libro e il romanticismo: niente più diamanti, niente più Tiffany.
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L’associazione italiana editori conferma che su internet i libri dotati di una piccola cover in jpeg vendono di più di quelli che non ce l’hanno.
Per i designer si tratta a questo punto di progettare copertine che funzionino anche piccole come francobolli. Ma del resto chi progetta best-seller questa cosa l’ha sempre saputa: una copertina deve funzionare anche vista a distanza da chi passa frettolosamente davanti a una vetrina, e in questo caso l’impressione retinica della cover è sempre stata piccola come se si guardasse un francobollo.
La copertina è un pezzo di un sistema complesso che dà forma (fisica o psicologica) al libro: immaginare oggetti esclusivamente virtuali è una semplificazione ben lontana dal modo con cui trattiamo la realtà, non solo quella dei libri. Ad esempio le vecchie foto stampate da rullino possiedono un’autorevolezza e una forza ontologica dovuta allo spazio preciso che occupano dentro gli album o nelle scatole, forza che i milioni di file dispersi nei nostri computer non hanno più.
Molto probabilmente saranno proprio i best-seller del futuro ad aver bisogno di un packaging adeguato come strumento di visibilità, magari solo per allestire le vetrine.
Di questi libri, la maggior parte sarà venduta in e-book ma sarà necessario disporre di una minoranza cartacea da usare anzitutto come simulacro: espositore, vetrina, display.
Oggi i lettori comprano la versione digitale di un libro che esiste “veramente” da un’altra parte e senza quell’oggetto potenziale, senza quella garanzia psicologica sarebbe tutto più difficile. Il paragone con il mercato discografico è improprio: del libro possediamo un’idea di tangibilità che la musica non ha mai avuto.
Dopotutto, anche se non è immediatamente evidente, i libri esposti sugli scaffali dei punti vendita o nelle vetrine sono allo stesso tempo i libri “veri” ma anche la loro rappresentazione. Senza quest’ultima è difficile per un editore far risaltare i propri libri in mezzo a migliaia di altri esemplari.
Da una parte ci sono strumenti nuovi e sofisticati: come gli algoritmi stile Amazon che ci consigliano un titolo perché abbiamo comprato qualcos’altro di simile; ci sono le recensioni e i blog; ma a questi nuovi mezzi manca quella virtù che avevano le librerie di farci scoprire un libro per caso, passeggiando o perdendo tempo (piacere per il lettore, occasione di guadagno per l’editore).
Tra qualche anno ci capiterà forse di ricordare con nostalgia i giorni in cui, durante le nostre passeggiate, ci si fermava alla Feltrinelli, per passare il tempo, per consumare un rituale come può esserlo un caffè sorseggiato al tavolino di un bar. Questo modello è destinato all’estinzione?
L’attuale crisi del libro è, tra le altre cose, anche una crisi dei lettori deboli, che hanno spostato il loro budget su fonti di intrattenimento alternative. Il nemico non sembra però l’e-book, bensì il device (iPad, Kindle o telefonino) che moltiplica le attività possibili: non solo libri ma pure film, serie tv, videogiochi, social e chat.
Eppure i lettori continueranno a esistere.
Anche i lettori forti comprano sempre meno in libreria, molti perché, a quanto dicono, non trovano più le cose che li interessano: semplicemente le librerie non hanno spazio per tenerle.
Ha senso trascurare i lettori forti?
La soluzione per rilanciare le librerie potrebbe essere dietro l’angolo.
Se le si trasformasse in show-room, esponendo una sola copia di ogni titolo per mantenere la visibilità di un catalogo enorme. Il tutto integrato con caffetteria, cartoleria e tutto ciò che può allietare una passeggiata. Così i libri (e la loro grafica) potenzierebbero il loro ruolo di rappresentazione e display.
Funzionerebbe così: una volta dentro si prende il libro che si desidera, lo si passa al lettore ottico e l’ordine è fatto, come su Amazon ma con più coinvolgimento: in 24 ore si riceve la copia a casa (se la si vuole cartacea) o subito sul tablet se si preferisce il digitale, mentre dei titoli di nicchia si avrà una copia print-on-demand.
Non è fantascienza: le librerie Taschen sparse per il mondo sono anzitutto la messa in scena del loro catalogo, un display spalmato su metri quadri percorribili.
Certo, Taschen è l’anti e-book per eccellenza, fatto per essere sfogliato, per arredare, guardato ma poco letto. Eppure l’idea che i libri siano un’esperienza esclusivamente immateriale è frutto di un malinteso: si confonde il libro con l’esperienza della lettura facendo coincidere tutti i libri con i romanzi (quando qualcuno dice che gli piace leggere sottintende “romanzi”).
Il libro è indubbiamente la lettura, ma è pure altro: ad esempio c’è qualcosa di sensato ed elegante nell’arredare il proprio spazio quotidiano con libri letti e amati. Credere che una cosa esista, serva o vada usata in un unico modo è moralistico (è giusto così e non colà).
I moralisti più rigorosi vi spiegheranno ad esempio che la lingua serve per deglutire i cibi o per parlare, ma chiunque abbia un rapporto complesso col mondo sa che la lingua serve pure per assaporare, per schioccarla e farci rumori, per fare le linguacce, per baciare (in più modi) e ovviamente per farci i palloni con la gomma americana.
Riccardo Falcinelli (Roma 1973), grafico e teorico del design, ha progettato libri e collane per i maggiori editori italiani tra cui Einaudi Stile libero, minimum fax, Laterza, Carocci. È autore di Guardare, pensare, progettare sul rapporto tra neuroscienze e design e Fare i libri il racconto di dieci anni di progetti editoriali per minimum fax. Insieme a Marta Poggi, ha scritto e disegnato i graphic novel Cardiaferrania, L’allegra fattoria (minimum fax) e Grafogrifo (Einaudi).
GATSBY: GRANDE, COPERTO E RICOPERTO (Saluti dal Salone del Libro, 17)
Questa è una cartolina
come quelle
che si comprano
che so
a Sirmione
a Taormina
a Venezia
a Stromboli,
che sono a fisarmonica.
Che il libro è sempre
uno
ma le viste son tante.
È uscito il Grande Gatsby al cine
che io ancora non l’ho visto,
Mondadori ha un bel po’ di titoli di Fitzgerald in catalogo
-uscivano, quando era un contemporaneo, nella Medusa-,
un po’ stantii
da quando minimum fax
li sta ritraducendo
in una collana appositamente dedicata-,
però del maiale, si sa, non si butta via niente;
quindi:
massiccia operazione di ricopertinaggio.
L’edizione di Belli e dannati ne Gli Oscar è del 2007
-come giustamente indicato sul sito della
Mondadori-;
io accidenti a me mi sono perso le indicazioni di chi ha fatto tutte le grafiche che pure mi ero segnato
mi dispiace -l’art director è Giacomo Callo, capace di grandi cose;
ora è in libreria con una sovracoperta
-evento eccezionale per un Oscar-
bella, semplice, nitida,
in serie se non sbaglio con altri 5 titoli di
Fitzgerald.
Poco costo e un buon metodo, elegante,
per riportare l’attenzione su altri titoli di Fitgerald oltre il GG.
Non paghi però
alla sovracoperta
-che comunque fa un po’ buffo sollevare
la sovracoperta e trovarci una copertina tutta diversa-
hanno sovrapposto
una fascetta
che riprende la sovracoperta
con cui hanno avvolto
il GG,
con la locandina del GG al cine
-al proposito in tanti ci si dispera, ma de che?-.
Quindi insomma
tanta carta per un libro del 2007.
Beh, se ne sprecava di più
rieditandoli.
Quindi la foresta amazzonica o chissà qual’altra ringrazia.
Come accade in quelle cartoline a fisarmonica,
c’è sempre poi un’immagine
del posto
con
una costruzione
moderna
un posteggio
un monumento
una fabbrica
ed eccola qua.
Signorini che scrive un libro su
Fitzgerald.
Ora:
non ho mai letto niente di Signorini,
ma l’ho sentito parlare.
Ecco, in questo
caso
mi sento di dire
che la foresta amazzonica o chissà quale altra,
stanno piangendo lacrime amare,
amarissime.
Un saluto,
a presto,
FN
Editoria, aspettando l’autunno -che non sia un precoce inverno
Il discorso intorno all’editoria s’è fatto ormai così vasto; ha molti tratti inutili naturalmente, e, come spesso accade quando in tanti si parla delle medesime cose, noioso.
Ha dei tratti però anche molto interessanti, per esempio che è soprattutto un discorso condotto qui nel sottobosco. Ci sono vari interventi di responsabili di marchi, ma fatto salvo i meritevoli di :due punti o di minimum fax o di e/o, che provano a interrogarsi sul proprio mestiere, quello che filtra dalle grandi case -soprattutto nelle interviste che l’incontournable Antonio Prudenzano conduce per Affari Italiani- sono proclami un po’ autoreferenziali, più rispondenti a una logica di marketing e di posizionamento, che a una volontà di interrogarsi pubblicamente su un mestiere drammaticamente sottoposto a cambiamenti di difficile gestione. Chiusi questi ultimi in una retorica forzatamente sempre ottimista e progressiva, tollerabile in momenti espansivi, risultano ora un po’ patetici, un po’ tristi, e tanto propagandistici.
In parte il discorso sull’editoria sembra avere sostituito il discorso sui testi letterari -il discorso sui testi di saggistica ha lasciato che si perdessero le sue tracce, lontano, ma non si sa dove, dai saggisti tv. Parlare dei testi sembra presupporre ora due opzioni, da una parte quella impressionistica che parte da sè e lì, attraversando in vario modo il testo e le proprie emozioni, torna, un opzione che sembra basarsi sull’attribuire alla propria esperienza personale una grande importanza, in sè, così grande da giustificare il discorso; opzione alla quale la rete offre grande spazio, successo, possibilità e vastissima platea di pari, uno spazio del tutto nuovo, abitato con entusiasmo; l’altra opzione, messa a dura prova dall’affermarsi della prima, tenta di parlare dei testi abitandone soprattutto il contesto e dando ragione di sè nel tentativo di fornire degli elementi di decifrazione, utili a capire cosa sia quel testo e per quale ragione sia così. Questa seconda opzione, sfrattata dal mezzo cartaceo, è ora pellegrina su un mezzo che poco la contempla, e sottoposta a un pressione defatigante di continua interrogazione di sè, sul proprio linguaggio, sui propri motivi e la propria legittimazione e sembra annichilire.
È pur vero che se la modalità con la quale i testi vengono letti, prodotti, distribuiti è così come ora violentemente scossa alle fondamenta da mutamenti che non sembrano trovare requie e che investono o stanno per investire la loro stessa natura, appare inevitabile che il discorso su di loro s’affievolisca sino a immiserirsi, in desiderio, anche, di chiarezza.
Poi, certo, l’esternalizzazione di sempre più servizi e competenze che erano propri delle case editrici, con la sostanziale espulsione dal corpo vivo delle redazioni di una parte intesa di servizio, quando è invece sostanza stessa del mestiere, e la nascita di centri prima ancillari poi sempre più compiutamente autonomi, dove i testi e i libri vengono pensati e disegnati (uno dei molteplici movimenti che, ben prima della crisi e ben prima della smaterializzazione dei testi, hanno piegato a logiche astratte imprese che avevano una loro specificità che si è rivelata troppo delicata, forse troppo certa di sè, per sopravvivere nell’oltranzismo di chi vedeva nel nero dei bilanci non una condizione ma un fine, noncurante del ruolo esiziale che il processo aveva sul prodotto, o, nel migliore dei casi, scientemente perseguendone l’annichilimento), il moltiplicarsi spesso vano di aspiranti a un mondo più vagheggiato che reale, disposte/i a spendere energie, tempo, denari -e a non riceverne- per partecipare ad un’idea quasi misterica di un mestiere che sembra disconoscere se stesso, certo anche questo contribuisce a grappolo al moltiplicarsi delle voci, nel tentativo forse illusorio di trovare un rispecchiamento, una somiglianza, un motivo di coraggio, nella fantastica illusione -resa così dolcemente reale proprio dal moltiplicarsi e dal frammentarsi dei soggetti- che ciascuno possa possedere l’idea giusta, la via giusta, in un mestiere che può essere solo collettivo.
A caso, oggi -sappiamo ben che il caso è un ottimo strumento- uno via l’altro su facebook ho visto passare tre link, molto diversi fra loro, a post che parlavano a vario titolo di editoria. Non sono né le più acute né le più bizzarre fra le riflessioni sull’editoria ma leggerle una via l’altra mi ha fatto pensare che le si potesse far risuonare una con l’altra.
Marino Buzzi, libraio e scrittore, sul suo blog Cronache dalla libreria, fa alcune Riflessioni intorno al mondo del libro, a partire da tre articoli usciti recentemente:
un’intervista di Prudenzano a Raffaello Avanzini di Newton Compton del 23 luglio:
“[…] Newton ha fatto, giustamente i suoi interessi e ha portato a casa dei risultati ma non ha portato grossi vantaggi al mercato in generale. Gli accordi commerciali fra librerie di catena e case editrici hanno portato, in questi mesi, a una massificazione del prodotto tale da “ingorgare” il sistema. Pur di ottenere percentuali di sconto maggiori ci siamo portati in libreria quantità enormi di titoli che, in moltissimi casi, non hanno portato ai risultati sperati. […]”
una lettera aperta di Sandro Ferri, editore di e/o, pubblicata il 25 luglio su la Repubblica
“[…] Le librerie rimangono aperte se qualcuno entra a comprare. Punto. Ferri fa un discorso mirato alla bibliodiversità, un discorso che condivido completamente, ma che non posso fare mio. E non posso farlo perché io sono un libraio di catena e chi lavora in una libreria di catena sa che il nostro ruolo, oggi, è quello di fare tessere, di servire il più velocemente possibile il cliente, di esporre libri che non abbiamo scelto noi.
[…]
I lettori in Italia sono davvero pochi, quei pochi che ci sono, per fortuna, leggono tanto e ci permettono di resistere. All’interno della bassa percentuale di lettori ce ne sono molti che non hanno più le stesse possibilità economiche di un tempo e che quindi, oggi, acquistano libri a basso costo ingoiando, permettetemi il termine, qualsiasi cosa pur di continuare a leggere. I best seller, che tutte le case editrici inseguono, sono comunque sempre pochissimi rispetto alle vastissime realtà editoriali. La cosa triste è che dopo Newton molte case editrici non hanno cercato alternative, no, semplicemente hanno seguito il mercato senza cercare di cambiarlo. Così oggi abbiamo prodotti dai 9,90 in giù, di case editrici diverse, con copertine, titoli, storie tutte uguali. […]”
un intervista di Maurizio Bono a Gianluca Foglia, di Feltrinelli, pubblicata su la Repubblica il 25 luglio:
“[…] Feltrinelli è stato il primo gruppo di librerie a dare il via alla libreria di catena come la conosciamo oggi. Siamo tutti consapevoli di come sono andate le cose nel corso degli anni. Non è passato molto tempo da quando i librai Feltrinelli scesero in piazza per denunciare la situazione (li ricordo in piazza Ravegnana a Bologna durante la protesta). Del progetto rivoluzionario di Giangiacomo Feltrinelli non è rimasto niente. Le vetrine a pagamento, in Italia, dove sono arrivate per prime?
[…]
credo che non basterà il prossimo libro di Saviano (che pubblicherà proprio con Feltrinelli) per salvare un mercato che ormai è ridotto all’osso. E neppure riproporre, con nuove vesti grafiche, libri di autori conosciuti. Il vero problema è che anche le grandi catene hanno passato anni a farsi guerra per avere una maggiore presenza sul territorio, per accaparrarsi nuove fette di mercato. Sono state cieche e sorde, non hanno voluto vedere i primi sintomi di una malattia che ormai è diventata cronica e che ci ha portati tutti sull’orlo della follia commerciale.
[…]
Se un libro rimane su uno scaffale ormai 30 giorni. Se le librerie non hanno soldi per pagare i distributori. Se gli autori e le autrici non vengono pagati o prendono percentuali ridicole. Se la bibliodiversità scompare per far spazio all’uniformità del best seller. […] Credete veramente che sopravviveremo? […]” (Marino Buzzi, Riflessioni intorno al mercato del libro, in Cronache dalla libreria, 26 luglio 2012)
Su Caffè News, per la serie La Grasse Matinée, di Leyla Khalil, un post del 23 luglio chiedeva: Editoria non a pagamento:specchietto per le allodole?
“[…] Mentre procede su più fronti la proverbiale battaglia contro l’editoria a pagamento, alla sottoscritta è capitato di venire a contatto con varie realtà editoriali che pubblicano in maniera gratuita. Tali case editrici però, nel novanta per cento dei casi, si appoggiano giustamente a svariati metodi per far sì che la pubblicazione delle opere in maniera gratuita non si traduca in una perdita per le loro tasche.
[…]
Un esempio:i ripetuti concorsi per esordienti, i cui prezzi si aggirano generalmente fra i 15 ed i 25 euro. […] Altro metodo è quello di mettere su corsi di scrittura, di editoria, di traduzione, alla fine dei quali si dà la possibilità di fare uno stage nella casa editrice. Il che significa, altrimenti parlando, lavorare per la casa editrice per un periodo limitato di tempo e nella stragrande maggioranza dei casi a gratis.
[…]
Detto ciò: si può parlare davvero di editoria non a pagamento? Il fatto di apprendere alcune nozioni in maniera più o meno approfondita (i corsi di scrittura spaziano dal weekend intensivo con i prezzi alle stelle, a quello che dura parecchi mesi con tre o anche quattro incontri settimanali di due o tre ore) giustifica il prezzo che l’esordiente deve in qualche modo pagare per poter accedere al mondo della letteratura? Non è forse uno specchietto delle allodole il trucco di spacciarsi per editori non a pagamento e poi riempirsi le tasche dei soldi di corsi e concorsi, i quali si rivelano spesso e volentieri l’unico modo per avere accesso al Taj Mahal del mondo editoriale? […]” Layla Khalil, Editoria non a pagamento: specchietto per le allodole?, in Caffé News, 23 luglio 2012)
Il terzo è un saggio di Domenico Scarpa, già compreso in Dove siamo? (:due punti edizioni, 2011), riproposto da Nazione Indiana l’1 marzo 2011
“[…] Nella più recente edizione scolastica di una celebre testimonianza su Auschwitz una nota a piè pagina segnala ai ragazzi l’esistenza di un altro grande scrittore della Shoah: Elie Diesel. […] dietro l’errore materiale c’è un errore più vasto, di tipo economico-strategico. La maggior parte del lavoro editoriale viene svolta all’esterno delle case editrici, da persone poco competenti, pagate male e prive di passione per il loro lavoro. Il sistema regge perché genera profitto e perché i lettori un po’ si lagnano ma continuano a comprare: e molte aziende si sentono incoraggiate ad aumentare il margine di approssimazione.
[…]
Prima di proseguire, però, devo affrontare un problema che questo testo ha coi pronomi: i pronomi qui dentro non funzionano perché non lasciano capire chi sta parlando, e con chi. Già solo nei primi tre capoversi uso la seconda persona singolare, poi la prima plurale, poi ancora la prima singolare, infine la prima plurale di nuovo: tu noi io noi, mentre sullo sfondo si distingue una voce non identificata che parla col tono di chi dètta legge, e che somiglia perciò alle voci onniscienti dei romanzi condotti in terza persona. Più avanti ci saranno frasi con la costruzione impersonale, ma le cose non cambieranno.
Questo non è un saggio teorico e nemmeno una proposta di metodo; tantomeno è un manifesto perché non crede di averne la forza assertiva. È piuttosto una selezione di esperienze e di umori che fanno la voce più grossa di quanto dovrebbero. Direi che non esistono pronomi attendibili in questo scritto, o se esistono non si riesce a pronunciarli a voce piena.
[…]
Nei corsi di marketing si insegna che il ciclo di un prodotto di successo conosce quattro fasi tipiche: wild cat ossia la novità capricciosa, imprevedibile; star, l’oggetto che s’impone come necessario; cash cow, la mucca da soldi: spremiamone tutto il possibile, prima che decada a dog e addio. Oggi troppi prodotti editoriali comprimono in un’unica fase convulsiva le prime tre: è la storia di tanti esordi troppo fortunati e senza futuro, perché sarà poi l’autore stesso a trasformarsi in dog, non i suoi libri. Nel cosiddetto canone del Novecento italiano incontreremo invece scrittori le cui tirature non si sono mosse, per decenni, dalla fascia delle 1.000-3.000 copie: Gadda, Landolfi, la Ginzburg, Cassola, Bassani, Anna Maria Ortese… Per qualcuno di loro a un certo momento poté arrivare l’opera-star, Pasticciaccio o Lessico famigliare o Ragazza di Bube; ma non sarebbe venuta senza una scommessa che fu economica e culturale in proporzioni identiche, e che richiese pazienza.
[…]
Noi dobbiamo tornare a credere che si possa sedurre il pubblico con la qualità, e che la moneta buona sia capace di scacciare quella cattiva. Il pubblico va convinto, individuo per individuo, che con la bellezza difficile si gode, e parecchio. Bisogna insegnare a godere in modo più competente, ma lo si deve fare senza salire in cattedra. Fra elitarismo e sciatteria esiste una terza strada: essere intransigenti sulla qualità e seducenti nel comunicare. Non dobbiamo adattarci a credere che il pubblico voglia il peggio; dobbiamo parlare, con pazienza e poco per volta ma sempre, senza stancarci, ai pochi (rivolgerci alle grandi assemblee non è per noi); dobbiamo attrarre i non convinti uno alla volta. Sarà un lavoro lungo, difficile, oscuro, senza garanzia di successo e con riconoscimento mediocre: questo è bene saperlo in partenza ed è bene non sentirsene orgogliosi, perché proprio quell’orgoglio elitario falsa la voce fino a renderla detestabile.
[…]” (Domenico Scarpa, Il plusvalore di un libro ben fatto, Nazione Indiana, 1 marzo 2011)
minimum fax, i MINI
“[…] minimun fax coi “mini” gioca sulle assonanze e disegna con Riccardo Falcinelli una collana agile e allegra che ribadisce le linee programmatiche delineate in Fare i libri (cfr. Appunti, L’Indice, XI, 2011) introducendo qui delle bande sghembe e colorate da locandina anni ’50 che in quarta attraversano un bianco squillante e in copertina si sovrappongono a illustrazioni a tutta pagina, spesso riprese dalla prima edizione, per non disperdere il patrimonio di visibilità accumulato; altre sono nuove ma coerenti con le collane del marchio, solo con un generale ingrandimento. 8-10 titoli all’anno che si caricano anche il compito di rimescolare, muovere, i materiali che si sono depositati nel catalogo, anche introducendo inediti, o riprese da altri editori, uno strumento agile e che potrebbe contribuire a sciogliere la percezione forse troppo rigida per un marchio che aspira a non deflettere dalla linea di crescita degli ultimi anni. Due primi titoli: Dio la benedica, dottor Kevorkian, di Kurt Vonnegut; Il tempo materiale, di Giorgio Vasta. […]”
Il brano qui sopra è tratto dal numero de L’indice dei Libri, rubrica Appunti, di Giugno 2012, dove si parlava, oltre che della “mini” di minimum fax, anche della “bis” di Quodlibet e della “Supereconomici” di Voland. Qui sotto tante fotografie di un volume della mini.
Tutte i post di editoria apparsi qui li trovate ben ordinati nella sezione Editoria / notizie, solo su FN
L’articolo originale è apparso su L’Indice dei Libri di Giugno 2012
Voland: i SUPERECONOMICI
“[…] Alberto Lecaldano disegna per Voland una delle sue più riuscite interpretazioni dell’idea di collana. 18,5 x 11 cm., resi ancora più verticali da due bande in colore che corrono sui margini in copertina, grande il nome dell’editore gerarchicamente sullo stesso piano di autore e titolo disposti dall’alto a bandiera allineati a sinistra, un disegnino nella parte restante della copertina in posizione mobile insieme a un breve testo, e, sulla destra, contornato in basso da una lieve ombra, un cerchio giallo si diverte a citare le coccarde adesive dei prezzi urlati e riporta il nome della collana ripetendo il nome dell’editore, come una ridondanza non pensata, efficace e ironica. 6-8 titoli all’anno per 7€ (salvo Nel paese dei briganti gentiluomini, di David-Néel Alexandra, a 9, ma per 448 pagine) ripresi e ripensati (Come sono strani gli uomini, di José Ovejero esce nei “SE” nella versione di Bruno Arpaia dopo la prima edizione del 2003 a cura di Federica Frasca). In quarta testi brevissimi, a ribadire la notorietà già conquistata. […]”
Il brano riportato sopra è tratto da un articolo che prendeva in esame, oltre alla collana “Supereconomici” di Voland, anche la “Bis” di Quodlibet, e la “mini” di minimum fax, apparso su L’Indice dei Libri, nella rubrica Appunti, nel numero di Giugno 2012. Qui di seguito una serie di fotografie illustrano la collana di Voland
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