Tatamkhulu Afrika / PARADISO AMARO. Playground 2006 e 2013. (Recensione di Vito De Biasi)
Paradiso amaro
(Bitter Eden)
di Tatamkhulu Afrika
traduzione di Monica Pavani
(per l’edizione 2006, qui fotografata)
progetto grafico di Giovanna Durì
impaginazione di Cristina Cosi
cartaceo, brossura con alette, 204 pag.; 13 €
Playground -Madrelingua gay, Roma 2006
(per l’edizione 2013)
progetto grafico di Federico Borghi
cartaceo, brossura con alette, 224 pag.; 15€
Playground, Roma 2013
Chissà se Tatamkhulu Afrika ha mai letto Primo Levi, e chissà che cosa ne possa aver pensato. È una curiosità legittima, visto il tema evidente di Paradiso amaro, la storia di tre uomini rinchiusi nei campi di concentramento durante la Seconda Guerra Mondiale. Il richiamo a Primo Levi è forse troppo istintivo, perché i libri sulla prigionia del chimico torinese e l’opera dello scrittore sudafricano smettono subito di somigliarsi.
La differenza principale è nella convinzione di fondo che anima le loro testimonianze: entrambi prigionieri, per diversi motivi, nei campi di concentramento tedeschi durante la guerra, raccontano la loro esperienza usando tecniche diverse mosse da filosofie opposte. Tanto le memorie di Levi sono lucide, e per questo filosoficamente disperate, quanto il resoconto di Afrika è romanzesco, e riesce a concepire l’amore anche in un campo di concentramento.
Potremmo invertire i termini della nostra curiosità, e domandarci, passando dal probabile all’impossibile, che cosa avrebbe pensato lo scrittore italiano di una storia di annientamento dell’umano che si accende di una speranza inimmaginabile, scritta da un poeta sudafricano nell’ultima fase della sua vita. Paradiso amaro è infatti ispirato alle reali esperienze di prigionia dell’autore, scritto nel 2002 a 82 anni e rieditato da Playground nel 2013, dopo una prima edizione nel 2006.
Tom Smith, il protagonista e voce narrante, vive una tranquilla vecchiaia con sua moglie, quando si vede recapitare due lettere e un pacco che gli riporteranno alla mente le esperienze nei campi di concentramento durante la guerra, quando fu fatto prigioniero dai tedeschi. È durante quel periodo che incontra altri due soldati prigionieri, Douglas, un infermiere che si legherà a lui in maniera soffocante, e Danny, un pugile inglese verso il quale svilupperà una recalcitrante attrazione.
Il romanzesco di Afrika, così diverso dalle nude riflessioni di Levi, non risparmia comunque ruvide descrizioni delle condizioni di vita dei prigionieri di un campo: la perdita della dignità, l’eccessiva vicinanza degli altri corpi, la promiscuità forzata che accede all’intimità con l’altrui carne, l’umiltà della condizione di corpo-cosa, che secerne liquidi e disperazioni.
Un aspetto che invece si ritrova in tutta la memorialistica e i romanzi sui campi di concentramento, è la descrizione minuziosa di un fenomeno inconcepibile per gli “estranei” all’esperienza: la ricreazione di un microcosmo con le sue assurde leggi interne, laddove ci si aspetta che regni il nulla o il caos.
Il campo di prigionia diventa per Tom e per gli altri una sorta di rifugio inconfessabile, un ordine, malgrado tutto, che si ha paura di rompere. Mentre la guerra infuria intorno a loro, i prigionieri vengono trasportati dal Nord Africa in Italia, e da lì in Germania, e il trascorrere delle stagioni, l’alternarsi della fame e della sazietà, della paura e di una specie di serenità, fa somigliare la loro esistenza a una normalità allucinata. Non manca nemmeno la gelosia, proprio perché a scorrere sotto tutto, come un fiume carsico che emerge quando la disperazione primaria è sospesa, è il desiderio. Quello di Douglas per Tom, e quello di Tom per Danny, un indecifrabile sbruffone col quale avrà un’amicizia fatta di frasi brusche e ruvide gentilezze.
Il desiderio sembra impossibile in quel luogo e in quel tempo, e non a caso Tom troverà un modo per rivelarsi attraverso la recitazione, grazie a una scalcinata compagnia teatrale messa in piedi dai prigionieri del campo. È attraverso la maschera teatrale, il trucco e i costumi di Lady Macbeth, che incredibilmente si ritrova a interpretare, che Tom si libera, esprimendo non una semplice sessualità, ma un modo di essere, nelle pagine forse più belle del romanzo: “…assaporo la dolcezza del potere e l’amarezza del suo decadimento, ma la scenografia, con le sue intimidazioni di torrette e pietra medievale, non mi racchiude più, avvolto come sono da un’eterna oscurità, finché sul palco non c’è una donna, come non c’è un uomo, solo una paura androgina che comunque non accenna a pentirsi”.
Dopo quell’epifania mediata dalla finzione scenica, niente sarà più lo stesso, proprio perché la paura androgina del desiderio non accenna a pentirsi. È questo il momento della deflagrazione, il punto di crisi dopo il quale le cose saranno possibili: il superamento di ogni paura, della morte come dell’amore.
Il paradiso amaro è il campo di concentramento che si ha paura ad abbandonare, perché in quel microcosmo dalle leggi mute e assurde tutto sembra possibile, al riparo dalla vita: “ogni baracca è di più, molto più di questo. Come qualsiasi forma umana, ha anche un suo spirito, individuale e unico, composto del sudore, dello sperma, del sangue, delle paure, delle speranze, delle follie o profondità, dei duecento di noi, distribuiti negli spazi calcolati al millimetro di ogni baracca. … È questo spirito che mi abbraccia, e che attirandomi nei vari fetori dei suoi tanti inguini, riesce a farmi indovinare che questa è la nostra baracca prima ancora che mi venga tolta la benda; e questo spirito mi sta venendo incontro anche adesso… ed è chiassoso, e immorale, eppure curiosamente consolante, come riesce a esserlo anche la casa più scomoda”.
Anche in un inferno confortevole come questo, in un mondo a parte popolato di uomini con un filo di vita, sembra possibile una forma d’amore, fosse anche quello non dettato dal destino o da una scelta, ma dalla disperazione dei corpi contigui sull’orlo dell’annientamento.
[Vito De Biasi]
(chi ha pagato il libro? Dipende: la copia sulla quale Vito De Biasi ha condotto la sua lettura l’ha pagata FN e gliel’ha fatta arrivare via Amazon; quella fotografata da FN non si ricorda più, però essendo che in casa ne ha reperito due copie è possibile che una l’avesse comprata lui e l’altra gliel’avesse mandata la casa editrice Playground, ma è solo una supposizione) (dài, son passati 7 anni!)
TUTTE LE CARTOLINE DAL SALONE DEL LIBRO DI TORINO!
Quando FN se ne va
in giro
per Saloni o per le Fiere
spedisce tante cartoline
che raccontino
un po’
i suoi giri.
Quest’anno ne sono arrivate 19.
Qualcuna s’è persa,
ma insomma,
19,
son già un bel po’.
Qui le si mette tutte in file,
ai testi c’arrivate coi link.
Ancora tanti saluti,
alla prossima fiera, al prossimo salone,
FN
1. SALONE DEL LIBRO DI TORINO: +20 per cento, +13 per cento
2. ZANDONAI E I SUOI TANTI TANTI CONIGLI
3. CASAGRANDE, dalla pacata Svizzera
5. GIUNTI JUNIOR: stupore in copertina
6. ELECTA KIDS FOSFORESCENTE PER HERVÉ TULLET
9. I ROMANZI QUOTIDIANI DI CLICHY
11. LA TERRA NERA DI SANDRO CAMPANI
12. SHERLOCK HOLMES e il mistero della copertina strappata
14. ADELPHI LIBRINI POCO BELLI
15. LA FELTRINELLI DI CRISTIANO GUERRI
16. SUPER SPECIAL, ISBN si dà una calmata
17. GATSBY: GRANDE, COPERTO E RICOPERTO
PLAYGROUND È UNA COLLANA (Saluti dal Salone del Libro, 13)
Naturalmente non è vero.
Naturalmente.
Qualche tempo fa
Fandango
ha comprato,
i particolari della
vendita non me li
ricordo,
una parte quale parte quali accordi.
Certo è che
un tempo,
una volta,
Playground,
magari non al Salone,
ma per esempio a Roma,
c’aveva uno stand,
tutto suo.
I costi, i costi, lo so.
Ma,
soprattutto,
per un marchio come
Playground,
che salvo gli inizi,
ha strutturato le sue uscite come
fosse una
unica collana,
e che non ha mai
considerato i suoi libri come
uno + uno + uno + uno + uno + uno + uno + uno + uno + uno + (e così via),
ma come un unicum,
senza troppo tirarsela alla Calasso, ebbene soprattutto per loro era
dicevo
importante vederli TUTTI insieme.
Ora, i costi, i costi,
nello standone
Fandango,
s’uno spunzone così alto
che accidenti che cartolina sbilenca che mi è venuta mi ci voleva una scala,
c’erano -quanti?
dieci titoli? quindici?
Poi si dice,
non siamo GeMS,
non livelliamo tutto.
Playground?
La collana ghei di Fandango.
Non è così,
naturalmente.
Ma i segni, gli spazi
hanno la loro
importanza.
Un saluto,
a presto,
FN
Ballando il Fandango nel Playground (Saluti dal Salone). 7
Per questa cartolina volevo
trascrivere il testo, tanto
per far prima, di una cartolina
che da Playground spedii due anni fa.
Avrei detto le stesse cose e bon.
Però nel frattempo Playground
è stata comprata, non tutta ma abbastanza,
da Fandango -che ha anche recentemente fatto lo stesso
con Coconino Press, Alet, Beccogiallo e Orecchio Acerbo.
In questi casi la cosa che viene detta è
niente cambierà.
Per ora, magari fatto salvo la prefazione di
Sandro Veronesi per la riedizione
di Mysterious Skin o la post-fazione a Cioccolata calda di
Rachid O. di Chiara Valerio, niente è cambiato.
Ma al Salone, non dichiarato,
il cambiamento era plasticamente evidente.
Nello standone triplo di Fandango stava
Playground, in un angolo del lato corto, coi suoi libri in pile e pile.
Playground ha dimensioni sufficientente piccole da
a quasi dieci anni dalla fondazione, poter ad ogni
Fiera a cui va, portare tutto
il catalogo, e seguirne i titoli come fossero
usciti ora.
Lì in quell’ammasso di titoli all’ammasso
i Playground in pile sembravano
che uno valesse l’altro.
Un po’ uno sfregio.
Malgrado come si vede dalla cartolina
le copertine insieme ben risultassero belle come toujours.
Non è cambiato niente, ma l’essere lì,
corner del the big stand,
un qualche segnale,
lo dava.
D’altra parte se è per non cambiare
niente
perché comprare?
perché vendere?
Un saluto,
a presto
FN
Helen Humphreys / LA VERITÀ, SOLTANTO LA VERITÀ. Playground 2011 (recensione di Federico Boccaccini)
La verità, soltanto la verità
(The Reinvention of Love)
di Helen Humphreys
traduzione di Carlotta Scarlata
Graphic designer: Federico Borghi
248 p., cartaceo ; 16€
Playground, Roma 2011
Nel 1843 la tipografia Pommeret & Guenot di Parigi stampa un piccolo volume dal semplice titolo : Livre d’Amour. L’autore è ignoto. Si tratta di una raccolta di poesie. Nella prima pagina come faux titre un verso di Dante “Amor ch’a nullo amato amar perdona”. Ne circolano solo pochi esemplari donati agli amici dall’autore stesso. Eppure il libro non passa inosservato. In poco tempo tutta Parigi ne parla: sono le poesie d’amore che il maggior critico letterario dell’epoca, Charles Augustin de Sainte-Beuve, ha scritto ispirato dalla sua passione -a quanto pare ricambiata- per Mme Adèle Hugo, la moglie del più grande scrittore francese vivente, Victor Hugo, nonché suo miglior amico. Il romanzo La verità, soltanto la verità di Helen Humphreys è il racconto di questa passione.
Poco è più banale di un triangolo amoroso. Eppure questo romanzo non è affatto banale, ma è difficile capire quanto l’autrice ne sia consapevole.
Va detto che il titolo originale è The Reinvention of Love: la prima critica è per Playground che ha deciso di cambiarlo, optando per un titolo dal sapore audeniano. Ma è stata una scelta inutile e maldestra: si poteva trovare una perifrasi rispettando il significato originale. É vero che qui si parla d’amore, di onestà e di disonestà –e quindi di verità- ma il concetto di “reinvenzione” credo sia centrale in questa storia.
Adèle è la moglie di un genio. Ma il genio, com’è sua natura, è preso più dalla sua opera che da sua moglie. Così, dopo quattro figli, il sentimento di Adèle lentamente svanisce, ma non svanisce il suo bisogno d’amare.
Come in un romanzetto rosa accade che la moglie trascurata trovi clandestinamente consolazione tra le braccia del miglior amico del marito. Poiché siamo nella stagione del romanticismo, tale amore sarà contrastato e infelice. Questo è il primo strato della lettura – ciò che le riviste definiscono in genere come “romanzo appassionante”-.
Ma Helen Humphreys è una scrittrice vera, di talento. Appartiene alla nuova generazione della letteratura canadese, come Alice Munro. E infatti vi sono almeno altri due strati di lettura che rendono questo romanzo interessante.
Innanzitutto il fatto che l’autrice abbia ricostruito una vicenda reale i cui protagonisti furono Sainte-Beuve, Hugo e sua moglie Adèle. Ma – è il centro del romanzo- che sarà Adèle a reinventare il concetto d’amore nel momento in cui s’innamorerà di un uomo che non potrà amarla completamente a causa di una malformazione genitale.
Scoprirà Adèle quanto questo amore sia per lei più forte e più dolce di quello di suo marito che la possiede e poi la dimentica. Scoprirà così che solo ora può sentirsi davvero amata poiché è divenuta la vera protagonista dei suoi sentimenti. Non solo, per vedersi clandestinamente in pubblico Charles a volte ruba i vestiti a sua madre e si traveste da Charlotte per incontrare in chiesa Adèle. Ed è Charlotte che Adèle ama di più, perché a differenza di Charles, che avrebbe voluto essere Hugo, Charlotte non vuole che Adèle.
I capitoli si rincorrono ora con la voce di Charles, ora con quella di Adèle. La figura di Hugo resta sullo sfondo come quella di un marito e di un padre prepotente e insensibile devoto solo alla sua consacrazione letteraria. “Victor era insaziabile, in ogni cosa e in ogni modo”.
Intessendo pagine da frasi riprese dalle lettere e dalle poesie di Sainte-Beuve e, per quel poco che è rimasto, dalle lettere di Adèle, Humphreys riesce ad appassionarci al racconto. Tutto bene? Non proprio.
Il problema sorge quando l’autrice rievoca la Parigi della Belle époque. In un romanzo storico in cui i protagonisti sono due tra i più grandi letterati di Francia non basta citare le strade e gli indirizzi delle loro varie abitazioni. Non basta dire che c’è il colera. Bisognerà evocare l’odore pungente e nauseante del disinfettante, il senso di morte che tutto circonda. Non basta descrivere i due amanti seduti accanto nella balconata della Comédie française mentre attendono l’abbassarsi delle luci per prendersi la mano. Bisognerà avere l’impressione di sentire la polvere depositarsi sui velluti.
Il fatto poi di evocare dei nomi così potenti costa il rischio di non essere all’altezza di quanto evocato. Qui si arriva al terzo strato di lettura. La vita, l’opera e la critica.
Di Sainte-Beuve che voleva interpretare il significato di un’opera a partire dalla biografia dell’autore conosciamo il giudizio sprezzante che di lui ne dà Proust nel suo pamphlet Contre Sainte-Beuve. Ossia contro il naturalismo come metodo critico. Proust gli opporrà la sua idea di Io letterario. È inutile cercare nella vita dell’autore il senso di un’opera letteraria, perché l’Io dell’autore non è l’Io psicologico dello scrittore. L’Io che parla e che si rappresenta è un altro, trascende la stretta dimensione biografica. “Un libro è il prodotto di un io diverso da quello che si manifesta nelle nostre abitudini, nella vita sociale, nei nostri vizi”, osserverà Proust.
C’è di interessante che raccontandoci Sainte-Beuve, l’autrice ci racconta precisamente la sua opera attraverso i fatti della sua vita intima. E Hugo allora non rappresenta altro che la letteratura stessa, contro Sainte-Beuve, che rappresenta il critico che non è riuscito ad essere un letterato -la malformazione genitale- e che allora si vendica tentando di portargli via una cosa a cui tiene, ossia Adèle che rappresenta il lettore.
Eppure Adèle avrebbe scelto lui, continuerà ad amarlo per tutta la vita anche se non potranno più vedersi.
Il lettore preferisce amare dunque una letteratura in cui riconosce la vita dello scrittore piuttosto che l’algido distacco che ritroviamo in scrittori come, ad esempio, Joyce, Woolf e Proust stesso. Tutti a credere che la letteratura non sia la vita.
Una vittoria del naturalismo sull’idea contemporanea di letteratura? Forse è andare troppo oltre la volontà dell’autrice la quale, ci sembra, non sia troppo consapevole di tutte le pieghe che il suo romanzo può dispiegare. Ciò che resta sono solo delle suggestioni, la delusione per l’intuizione di qualcosa che avrebbe potuto essere grande.
Federico Boccaccioni ha recensito recentemente per FN Lytton Strachey. L’arte di vivere a Bloomsbury, di Michael Holroyd, ilSaggiatore 2011.
queer / letteratura canadese / prime edizioni italiane
La verità, soltanto la verità / Helen Humphrey
1. ed. – Roma : Playground. – 248 p. ; 20 x 15 cm.
Carlotta Scarlata (traduzione di) ; Federico Borghi (graphic designer)
brossura con alette
alla copertina: foto di Diana Pinto
@2011 Playground
@2011 Helen Humphreys
tit. orig.: The Reinvention of Love
(tutte le recensioni apparse su Federico Novaro Libri, sono su FN)
2 comments